Racconto - Lo strano straniero

Lo strano straniero di Giacinta Di Stefano.

Descrizione

di Giacinta Di Stefano

L'ambasciatore dello stato di Majkanpur comunica che il giorno arriverà Sua Altezza il Marajha ecc. ecc..
Il testo era inverosimile e avrei creduto di sognare se non ci fossero stati, su quel telegramma, i timbri della posta e non lo avesse portato la postina Maria in persona.
Ad avvalorare la storia arrivò Giovanna che gestiva l'unico albergo del paese dicendo di aver ricevuto una prenotazione da primo di aprile. Un ambasciatore di non-si-sa-dove aveva telefonato per prenotare tutto l'albergo per un Marajha ed il suo seguito.
Quando entrò il Sindaco, il quale aveva già saputo qualcosa nel tragitto da casa sua, ci trovò sbalorditi ed increduli, ma la certezza di questo arrivo venne dal Prefetto stesso che telefonò per rassicurarsi che tutto fosse pronto per l'arrivo dell'illustre ospite. Vennero mobilitati anche polizia e carabinieri: ora non ci restava che attendere.
Come sempre succede, nel giro di poche ore già tutto il paese era al corrente del contenuto del telegramma e cominciò un'orgia collettiva di fantasticherie. La maggior parte dei paesani, ormai, viveva tra le nuvole e tutti, dico tutti, cominciarono a tirare fuori dai cassetti della memoria le reminiscenze sull'India e sull'oriente.
Si mescolava realtà e fantasia, presente e passato, in un miscuglio surreale di improbabile storia di quel paese. Sandokan e Salgari, Aladino e la sua lampada; i tappeti volanti esistevano realmente? Dagli atlanti rispolverati tutti poterono vedere che il regno di Majkanpur si trovava al confine del Pradesh e della Cina.
Ma che voleva questo sconosciuto da noi? Non era, si capiva subito, uno dei tanti turisti. E, allora? Dovevamo solo aspettare anche se la nostra curiosità era tanta e cresceva di giorno in giorno.
La mattina dell'arrivo, stranamente, molti paesani rimasero a casa. Avevano tanto fantasticato che ora, che finalmente si stava per realizzare l'evento, avevano timore di rovinare tutto. Forse non sarebbe successo niente, forse il Marajha veniva da noi solo per sciare, come fanno tanti.
Ci ritrovammo, così, in pochi a guardare con i binocoli il bivio per L'Aquila e quello per Avezzano. Ma il corteo sbucò improvvisamente dalla strada per Terranera, si poteva vedere anche ad occhio nudo: c'erano circa dieci auto che procedevano in fila, naturalmente, indiana.
Andarono dritti verso l'albergo. Il corte ci passò davanti e gli occupanti le dieci Mercedes nere ci salutarono con la mano, sorridendo. Corremmo dietro di loro per vederli scendere dalle macchine per vedere come erano vestiti e se avevano i turbanti. Restammo delusi dal loro abbigliamento occidentale e tornammo a casa.
Quasi tutte le fantasticherie erano crollate; niente di tutto quello che avevamo immaginato, come sempre succede nella realtà, era successo. Peccato! Nei giorni che seguirono tutto ritornò nella normalità, la novità, lo sconvolgimento, la grande notizia non c'erano stati e non si parlò più di quel signore che, con il suo seguito, era venuto sicuramente a sciare come le migliaia di altri turisti che lo avevano preceduto: praticamente, la norma.
Ma quando, uno dei giorni seguenti, si presentò a casa di mia madre il segretario del Marajha, tutto cambiò. Questo signore, il cui nome era Winston Burdwan, portò un biglietto che consegnò a mia madre; c'era scritto, in perfetto italiano, che il Marajha voleva avere un incontro con lei per importanti notizie.
Mia madre, sorpresissima ed emozionata, rispose che lei, dopo la messa DEL POMERIGGIO ERA A CASA E, SE VOLEVA, Sua Maestà poteva venire a quell'ora.
Così tutto fu organizzato per quella sera, comperammo dei biscotti e dolci vari da offrire all'ospite che puntualmente arrivò accompagnato da sua moglie, dai suoi due figli e dal suo segretario che avevamo conosciuto la mattina. Il sig. Burdwan conosceva l'italiano e così, dopo il caffè ed i pasticcini, potè tradurci il racconto inverosimile che ci fece il suo padrone.
Bisogna sapere che lo stato di Majankpur confina con la Cina e proprio da lì che un giorno, nel 19?.. arrivarono due occidentali che furono accolti dal nonno dell'attuale sovrano e, dopo essersi rifocillati e lavati, e dopo aver indossato tipici abiti indiani, raccontarono in un misto di lingue la loro storia.
Erano italiani, abruzzesi, erano partiti con altri abruzzesi in cerca di lavoro per Mosca dove avevano contribuito a costruire la ferrovia più lunga del mondo: la transiberiana. Ci vollero molti anni di lavoro per terminarla, ma la società per la quale lavoravano aveva trovato talmente tante soluzioni geniali per risolvere i problemi che man mano loro si presentavano lungo il percorso, che aveva acquistato una grande notorietà da essere contattata anche dai cinesi per costruire le loro ferrovie. E così che, finito il lavoro in Russia, il gruppo di lavoratori, dopo aver festeggiato per due settimane a Vladivostok a spese dello Zar, partirono per Pechino. In Cina costruirono chilometri e chilometri di ferrovia e, finalmente, dopo tanti anni ebbero il permesso di tornare alle loro famiglie, in Italia, al loro tanto desiderato paese, Rocca di Cambio. In quel periodo la loro società stava costruendo un'ardita ferrovia sulle montagne alle falde della catena dell'Himalaya e fu così che giunsero a Majankpur con l'intenzione di proseguire per Calcutta da dove si sarebbero imbarcati su di una nave inglese per tornare a casa. I due si chiamavano Alfonso Di Stefano e Pio Di Stefano. Pio Di Stefano era mio nonno.
Quante emozioni! E quanto ci prese questa storia! Nel frattempo a casa erano arrivati anche mio fratello e mia sorella e non potemmo non telefonare anche a nostra zia Flora ed ai nostri cugini, suoi figli e nipoti di zio Alfonso per informarli di quanto stava avvenendo. Provammo un profondo affetto per quella famiglia, li sentimmo molto vicini a noi, improvvisamente, scoprimmo che eravamo legati da una sorta di parentela, da un legame di amicizia che ci era stato regalato e tramandato dai nostri rispettivi nonni.
A questo punto il sovrano fece un cenno al sig. Burdwan il quale si alzò e, dopo aver preso da un borsone che aveva depositato per terra vicino la sua sedia, una grande scatola cubica color oro, la porse al Re il quale la posò sul tavolo e l'aprì.
Ne estrasse decine e decine di foto che ritraevano nonno Pio e zio Alfonso, detto nonno pippone, con il suo nonno, vestiti tutti con abiti indiani e ritratti assieme ai vari dignitari di corte con le loro famiglie. E poi loro a caccia di tigri a cavallo di elefanti, con incantatori di serpenti, fotografie di loro due sotto enormi statue del Bhudda e così via. Ci passavamo le foto l'un l'altro mentre il Sovrano ci raccontava come suo nonno convinse i due ad aspettare l'arrivo della nave nel suo regno (mancava circa un mese), li avrebbe fatti accompagnare lui a Calcutta con una scorta. Intanto mia madre accarezzava i bambini del Marajha e parlava con la loro madre stringendole le mani; ognuna parlava nella propria lingua, ma si capivano benissimo, non avevano bisogno dell'aiuto del sig. Burdwan.
Il racconto continuò e venimmo a sapere di come mio nonno, zio Alfonso ed il nonno del Re fecero amicizia e di come loro due dettero al Sovrano dei preziosi consigli su come costruire delle strade. Mio nonno non aveva mai raccontato le avventure in Russia ed in Cina e mai avevano raccontato dell?amicizia con il Marajha. Tutta quella storia fu per noi un'enorme sorpresa che ci riempì di gioia.
Dal borsone vennero presi anche dei piccoli monili d'argento ed anelli con pietre dure incastonate e bracciali a forma di serpente. Infine, fu preso un altro pacchetto dalla forma rettangolare avvolto da alluminio per alimenti. Si sparse subito per casa un buon profumo che ci era molto familiare, un misto di pepe e cannella e chiodo di garofano e noce moscata. Il profumo della pizza sfogliata!!!
Ed era proprio una pizza sfogliata quella che saltò fuori dall'involucro argentato. La mangiammo: era squisita.
Il Sovrano ci disse che quello era un dolce che loro facevano da almeno 5.000 anni e si mangiava sia nei momenti di festa sia nei momenti in cui venivano cremati i loro morti (che per noi occidentali era un giorno di dolore). Il dolce aveva un nome stranissimo che, tradotto, era simile a il pane di Shiva o il dolce di Shiva era, per loro, un simbolo di rinascita.
La famiglia del Marajha restò a Rocca di Cambio ancora qualche giorno per aspettare l'arrivo dei nostri parenti da Roma, poi ripartì con tutto il suo seguito, facendoci promettere che avremmo contraccambiato la visita per non disperdere nel vento una grande amicizia?. Così si espresse il Re.
Noi promettemmo ben volentieri. Un giorno sicuramente li avremmo rivisti.
Quella stana visita ci lasciò pieni di contentezza e ci svelò anche un grande mistero per noi: scoprimmo da dove veniva la ricetta per fare la pizza sfogliata.

Ufficio responsabile

Area Amministrativa

Via Duca degli Abruzzi, 1, 67047 Rocca di Cambio AQ, Italia

Telefono: 08621720031

Licenza di distribuzione

Pubblico dominio

Pagina aggiornata il 30/08/2024